Intervista alla prof Covino

Ritorna la rubrica “Microfoni del Fermi”, lo spazio di oggi è dedicato alla prof.ssa Covino, docente di Storia e Filosofia presso il nostro istituto. Attraverso il suo approccio filosofico ci ha permesso di conoscere un po’ di lei, donandoci piccole riflessioni e aneddoti che hanno suscitato in noi e che speriamo susciteranno in voi lettori una grande curiosità.

Se potesse spostarsi in qualsiasi tempo e in qualsiasi luogo, con quale filosofo avrebbe il piacere di parlare e perché?

Naturalmente anche io sono succube dell’ideologia del grande nome e del culto del grande io. Anche io sono cresciuta immaginando dei giganti e pensando al passato costruito sulle grandi azioni dei grandi uomini. Ogni autore che mi è capitato di incontrare nel mio percorso di studi è stato qualcuno che avrei voluto incontrare. Poi con il tempo, anche per scelte ideologiche, ho finito per desiderare di incontrare, oltre al Grande Uomo, quelli che la storia non aveva ancora considerato come grandi uomini. Immaginando una società futura in cui tutti saranno grandi uomini e non avremmo più una ragione di dover celebrare e porre il piedistallo ad un io. In ogni caso, l’incontro che mi ha forse segnato di più, nel mio percorso, è stata la lettura delle Lettere di San Paolo. Quindi sì, mi piacerebbe incontrare San Paolo.

In che animale o personaggio si identifica? Come si percepisce e come pensa di essere percepita dagli altri?

Io ho due animali preferiti da sempre: la volpe e la mucca, per ragioni diverse. C’è una poesia di Archiloco, usata da Isaiah Berlin per spiegare i giochi di società in Russia: “La volpe sa molte cose, il riccio una sola grande”. Isaiah Berlin passava in rassegna tutti gli intellettuali della Russia del tempo: diceva che Dostoevskij era un riccio purissimo, invece Tolstoj era una volpe che credeva di essere un riccio. Ebbene, io mi sono sempre immaginata come un riccio che ha paura di essere una volpe. Rispetto a ciò che siamo, io sono convinta che siamo sempre la risposta alle  immagini degli occhi che ci guardano. Quello che siamo è sempre qualcosa che ci appartiene meno, perché quello che siamo è sempre determinato da quella congerie di incontri e di sguardi che sono stati il prodotto dei nostri incontri. Questa è per me l’unica forma di percezione possibile. Come mi percepisco? Non lo so. Io mi percepisco da sempre come una persona molto timida che però, come spesso succede alle persone timide, finisce per eccedere nella stravaganza e penso di essere lontana da quel pudore che si attribuisce alla timidezza. Una volta, parlando con un mio amico, concludemmo che, in fin dei conti, finiamo per essere ciò che diciamo. Ricordo che mio figlio passò davanti a noi dicendo: “Io sono bello e intelligente. Io sono bello e intelligente” per prenderci in giro, perché se lo diciamo non è detto che lo diventiamo ma significava anche altro.

Qual è il primo ricordo che le sovviene se ripensa alla sua infanzia?

A casa mia sono sempre presa in giro perché riesco a ricordare sempre tutto, ho sempre la pretesa di ricordare ciò che è accaduto anche a tre anni. Tra i miei ricordi c’è sicuramente mia nonna. A lei piaceva raccontare le storie e forse il ricordo più caldo (caro) che ho è proprio il racconto delle sue storie. Tra le sue prime storie, mia nonna mi aveva raccontato che la madre di mio nonno era appartenuta a una famiglia che era riuscita a trovare uno dei tesori nascosti da Pietro Bailardo, un famoso brigante mago. Mia nonna mi diceva che nella casa dove abitavano dovesse esserci nascosta una pentola con le marenghe d’oro. Ebbene, se devo avere un’immagine di me che mi guardo dall’esterno e so con certezza che in questa immagine non ho neppure tre anni, perché io e la mia famiglia eravamo andati a trovare una zia, morta proprio quando avevo tre anni. La zia era malata, e per questo a letto, e io, in quella occasione, ricordo che desideravo solo guardare sotto al letto, a tutti i costi, per trovare la pentola di marenghe d’oro. 

Provando a tornare con la mente ai suoi ultimi mesi al liceo, riesce a ricordare come si sentiva? Può dare un consiglio a noi in questa situazione, anche rispetto alle nostre prospettive future?

Come avete capito, io sono molto legata a mia nonna che in pratica è stata malata e si è aggravata proprio nei miei ultimi mesi di scuola. Al liceo ero già molto arrogante e ho odiato gli anni del liceo. Ero molto presa dall’idea di voler cercare un altro mondo in tutti i sensi, per l’urgenza di fuggire dalla piccola dimensione dei paesi in cui ero cresciuta. C’è questa poesia, che invito a leggere in questi anni, “La Città”, che dice: “Perché sciupando la tua vita in questo angolo discreto, tu l’hai sciupata su tutta la terra”. Difatti io vivevo una dimensione in cui l’urgenza di andare via nascondeva un’urgenza altra, che era una mia difficoltà di “stare” al mondo, difficoltà che invece attribuivo al mondo stesso. Io in realtà non ho vissuto la paura dell’esame, non mi importava niente ideologicamente perché non credevo nella scuola come istituzione, ero solo preoccupata per la situazione di mia nonna in quei giorni. Ho assaporato per la prima volta l’ansia e la gioia della fine degli esami, più tardi, quando sono diventata insegnante, attraverso le classi a cui mi ero tanto legata. 

Come ha scelto la facoltà e cosa consiglia a chi, a breve, dovrà compiere la medesima scelta? Quale lavoro sognava di fare da piccola?

Io ho sempre saputo quello che volevo studiare. Non ho mai avuto esitazioni: volevo studiare filosofia. Avrei potuto studiare anche letteratura però l’idea della filologia mi seccava. Filosofia mi avrebbe concesso di approfondire quello che da sempre mi interessava. Non avevo minimamente pensato al lavoro. All’epoca, in realtà, pensavo di voler fare la rivoluzione. Il mio sogno era di finire di studiare e fare la barbona. Era per me un modo di essere fuori dal contesto. Volevo continuare a studiare perché credevo e credo che ognuno di noi per partecipare al mondo che viene possa contribuire attraverso uno studio analitico della realtà e lo studio è proprio il momento dell’analisi.

Tra i suoi professori ne ricorda qualcuno con particolare affetto?

Ho avuto tanti incontri fortunati. Al liceo ho avuto una professoressa di Lettere, da cui, anche se solo per un anno, ho imparato uno studio più puntuale. Ero terribilmente arrogante. Ero una ragazzina che leggeva veramente tanto e mi sentivo, in qualche modo, autorizzata a non seguire mai le direttive della scuola, che vedevo come l’istituzione nemica e quindi preferivo fare per conto mio. Mi ricordavo quello che avevo letto e pensavo che bastasse. Al liceo questa professoressa fu con me particolarmente severa. Mi mise dei voti negativi: in qualche modo presi 4 ad un compito di italiano perché ero andata fuori traccia. Le sue tracce erano tutte di letteratura e io le trovavo tutte perennemente noiose, soprattutto perché mi è sempre piaciuto vagheggiare. Al terzo tema di quell’anno, l’ennesimo tema per me noioso, consegnai il foglio in bianco. La professoressa, che era solita riportare i compiti corretti il giorno dopo, non portò quel terzo compito e disse che vedeva la sua classe un po’ troppo attenta ai voti e che avrebbe considerato solo il voto di media e non il voto particolare. In pagella, trovai un 7 allo scritto nonostante il mio compito in bianco e il mio 4.  Questo fu per me una provocazione: mi imposi di studiare la letteratura italiana e di rispondere ai suoi temi in altro modo. Mi sentivo terribilmente in debito con lei, sapevo di aver ricevuto da lei più di quello che io avevo dato. Oggi sono in debito con lei perché ha saputo, come nessun altro, obbligarmi ad una attenzione diversa che io non mi concedevo mai di avere. Soltanto grazie a lei ho capito quanto sia importante l’attenzione verso ciò che non ci interessa e come la pretesa di studiare soltanto ciò che ci interessa sia soltanto espressione di arroganza. L’attenzione verso ciò che non immediatamente possiamo comprendere, è ciò che ci costringe all’anelito verso l’altro, è ciò che ci insegna a uscire dai noi stessi, verso l’attenzione più importante, è simile alla preghiera. Difatti, proprio con le parole di Simone Weil, riuscii a comprendere soltanto grazie a lei la vicinanza tra lo studio e la preghiera. Per me è stato fondamentale venendo da una famiglia in cui non si pregava. La preghiera è il modo in cui noi impariamo ad abdicare da quel carceriere che è l’io.

Qual è il suo posto del cuore?

Potrei dirvi che ogni posto dove si è, è il posto del cuore dopo che lo si è lasciato. Quindi ogni posto dove sono stata e non sono più è il mio posto del cuore, per quella parte per cui ci sono ancora senza esserci più del tutto. Non riesco mai a fare le gerarchie, ci sarebbero troppi posti.

C’è una bravata che rivendica o rimpiange?

Ho fatto tante bravate. Quella che mi sono abituata a raccontare è stata per me, all’epoca, ragione di estremo sconforto però fa ridere tutti, compresi gli alunni. Riguarda gli episodi della prima volta che mi sono innamorata di un ragazzo di Torino, Paolo, che ho corteggiato in una maniera assurda. Tante volte andavo a Torino e lo seguivo di nascosto. Una delle caratteristiche del fascino della città, credo, per chi vive in un paesino piccolo, e per me, che sono stata sempre tanto legata ai racconti, è la libertà di immaginazione rispetto ai mondi che abitano le persone che non conosci. Rispetto alle bravate, con Paolo avevo cominciato un epistolario in cui io ho scritto tantissimo e lui quasi nulla. In una delle poche lettere, purtroppo, mi scrisse che stava uscendo con una tipa. Io ero completamente a digiuno dei linguaggi gergali quindi non capii cosa volesse dire: per me uscire con una tipa non significava niente se non uscire con una persona qualsiasi senza importanza. Quando successivamente con un gruppo di amici saremmo dovuti partire in un interrail all’estero insieme, lui mi disse che non poteva più partire. In quel momento realizzai un antico sogno che conservavo da quando avevo letto Piccole Donne da bambina: andai a vendermi i capelli a San Biagio dei Librai, a Napoli, poi rubai a casa mia delle collanine che mi avevano regalato per i diciotto anni e andai al banco dei pegni. Misi da parte i soldi e comprai un biglietto di sola andata per Torino e un enorme mazzo di rose rosse. Arrivata a Torino, lui venne a prendermi con la “tipa” e alla stazione già capii subito cosa era la “tipa” e mi mortificai. Alla fine le rose le regalai alla mamma di un altro amico. La cosa fu terribile per me, ero completamente distrutta: tutti i soldi che avevo li spesi offrendo da bere agli amici e mi ubriacai per tre giorni. Non avevo soldi per comprarmi il biglietto per il ritorno, volevo assolutamente andarmene e non confessare a nessuno quello che era successo. Salii su un treno e appena questo partì, scoppiai a piangere disperata: venne fuori tutto il dolore di quei giorni. Allora c’erano ancora gli Intercity con gli scompartimenti, nel mio c’era una signora calabrese che cominciò a consolarmi. Quando mi chiese cosa fosse successo, mi vergognai di dire la ragione reale, quindi, dissi che era morta mia madre. Tutte le persone sul treno cominciarono a consolarmi, ma mi sentivo in colpa per la grande bugia detta. E, più questi mi consolavano, più piangevo, più mi consolavano e più mi sentivo in colpa. Così il viaggio durò quasi 10 ore. Dopo un anno, ero a Berlino, e venni a sapere che Paolo si era lasciato. Con degli amici, andai a Torino e lui, sebbene sapesse del mio arrivo, non si fece vedere. La sera del mio arrivo, dunque, con un’amica, entrambe ubriache, decidemmo di fargli una serenata sotto casa. Scese la sorella dicendomi: “Smettila, lascialo perdere, lui non ti merita!” e io, imperterrita, continuai a cantare. Alla fine scese lui, mi portò al Valentino, un parco di Torino, vicinissimo a casa sua. Ricordo che lui era altissimo e io, da sempre, sono bassina. Ebbene, io provai più volte a baciarlo saltando, finché lui non mi mise le mani sulle spalle per trattenermi in basso e mi disse: “Non ce la faccio più, sei una persona inquietante, devi smetterla di scrivermi e di tormentarmi”. Completamente mortificata, umiliata, partii nuovamente per Berlino.

Insomma questa è la mia storia: con le bravate e con l’amore!

Articolo e immagini a cura di Lucia De Lucia e Francesca Mainolfi

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